III- Il cammino dell’educazione bilingue.
Precisiamo intanto che in questa serie di articoli
parlando di educazione bilingue abbiamo in mente il caso di genitori di lingue
diverse o dei quali almeno uno parli correntemente una seconda lingua – in
condizioni ideali a livello di lingua materna. Ci sono certamente casi di
genitori che sono bilingui o plurilingui per varie ragioni, ma le cui
conoscenze nelle altre lingue oltre quella materna, per quanto complete e di
alto livello, sono pur sempre di fatto lingue apprese “in aggiunta” ad una
lingua materna (o paterna). Anche in questi casi è possibile un’educazione
bilingue con successo, ma l’impegno sarà più consistente poiché verrà a mancare
una dimensione che spesso passa inosservata ma è invece fondamentale: la
dimensione affettiva ed emozionale.
Nessuno è in grado di esprimere allo stesso modo,
cioè con la medesima naturalezza ed autenticità, i propri sentimenti ed
emozioni in tutte le lingue che padroneggia, sebbene anche a livello formale sia in grado di utilizzarle tutte con la
medesima completezza e correttezza.
Per ognuno di noi c’è sempre una lingua in cui ci
si sente completamente “a casa”, che è quella con la quale abbiamo un rapporto
affettivo più intenso. Al limite può anche essere la lingua che padroneggiamo
meno di altre, ma nella quale ci identifichiamo perché è quella che abbiamo
appreso da bambini in un contesto affettivo positivo. Per il sottoscritto ad
esempio questa è la variante piemontese-occitana appresa dai genitori: con
nessuna della dozzina di altre lingue apprese in seguito esiste il medesimo
rapporto intimo ed affettivo. In altre lingue posso esprimere compiutamente il
mio pensiero, in varie di esse ha scritto articoli, saggi e racconti, ma nel
caso migliore quando si tratta di emozioni e sentimenti si tratta sempre in un
certo senso di adattamenti dalla lingua famigliare che ho citato sopra.
È un poco come con le persone che si incontrano
nel corso dell’esistenza, anche quelle con cui si intrecciano i rapporti più
stretti. In un certo senso, a parte i genitori, i nonni, i fratelli e le sorelle, tutti gli altri
sono fondamentalmente estranei. Si possono avere con loro rapporti magari
migliori che con i genitori, ma inconsciamente l’impronta lasciata dai genitori
è quella che forma gli individui e che magari inconsciamente condiziona nel
bene tutta la vita.
Si può dire che null’altro è così intimo e
fondamentale nella nostra identità che la lingua (o le lingue) apprese
nell’infanzia.
Ne abbiamo un esempio illustre e molto istruttivo
nel romanzo autobiografico “Lessico famigliare” di una famosa scrittrice,
Natalia Ginzburg:
“”Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi
stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo
essere, l’uno con l’altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una
parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e
ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia (…) per ritrovare a un tratto i nostri antichi
rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle
frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere
l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di
persone.””
Le parole hanno sì un significato comune per
consentire la comprensione reciproca fra tutti i parlanti, ma per ciascuno
hanno anche una dimensione personale, un significato aggiuntivo indissolubile
che si forma nel momento e nel contesto in cui la parola viene trasmessa dai
genitori ed appresa e poi utilizzata nella comunicazione famigliare. Non
esistono parole neutre, esse acquistano sempre un significato particolare nel
contesto sociale in cui vengono usate.
Come affermava uno studioso di letteratura russo
(Bachtin), ogni parola ha il sapore del
contesto, cioè dell’ambiente sociale in
cui viene utilizzata, e dunque “non
abita nei vocabolari ma nella bocca delle altre persone” coi cui si comunica.
Di qui l’importanza decisiva della scelta della
lingua da parlare ai figli: una lingua appresa come lingua straniera, per
quanto perfettamente padroneggiata non avrà mai la dimensione affettiva di una
lingua posseduta ed appresa come lingua materna (o paterna).
Non si sottolineerà mai abbastanza il valore
affettivo della (o delle ) lingue usate dai genitori coi figli: con essa (con esse) il bambino viene condotto a vedere il mondo, a
descriverlo, a spiegare le proprie sensazioni ed emozioni. Se la lingua in cui
apprende non ha lo stesso valore affettivo per il genitore che la parla, essa
resterà un semplice codice per comprendersi e passare informazioni, ma non
diverrà mai un qualcosa di intimo e basilare per il futuro sviluppo. Le
famiglie benestanti in passato utilizzavano governanti per educare in modo
plurilingue i propri figli, ed era normale che fossero anche tre o quattro le
lingue che questi fortunati bambini potevano imparare nell’infanzia senza
sforzo, e magari anche con una certa dimensione affettiva se le governanti ne
erano capaci. Ma genitori che ai nostri giorni volessero ad esempio educare in
modo bilingue i propri figli parlando loro una lingua straniera non
otterrebbero in alcun modo il medesimo risultato: infatti il principio “una
persona - una lingua” è fondamentale. I bambini possono benissimo rendersi
conto ad un certo punto che i loro genitori fra di loro o con altri parlano
svariate lingue: ma ciò che conta è che UNA lingua sia il tratto che li
accomuna con ciascuno dei genitori.
Nel periodo dagli anni dal 1980 fino al 2000 era
opinione corrente quasi unanime e difesa ad oltranza dai docenti tedeschi che i
genitori stranieri dovessero assolutamente parlare coi figli solo e soltanto il
tedesco. Mi dicono che ora questa insensata opinione sia fortunatamente
pressoché scomparsa. Spero che sia vero, ma mi è difficile crederlo poiché so
che sono in corso progetti in varie università tedesche per verificare se
l’educazione bilingue e il mantenimento delle lingue di origine dei migranti
sia un fatto positivo o negativo, cosa che dimostra che rispetto ad altre
nazioni qui si sia ancora indietro di almeno mezzo secolo rispetto ad una sana
pedagogia interculturale. Ma evidentemente più che di opinioni scientificamente
suffragate si tratta di una conseguenza di un atteggiamento politico che stenta
a morire. Anche se più nessuno (salvo pochi estremisti) si avventura oggigiorno
a sostenere contro ogni evidenza che “la Germania non è Paese di immigrazione”
come veniva solennemente proclamato dai partiti di maggioranza fino a pochi
anni or sono, evidentemente le opinioni motivate da ideologie piuttosto che da
osservazione e studio dei fatti perdurano.
Documentatamene, ancor oggi il primo consiglio che
viene dato ai genitori quando un alunno straniero ha qualche difficoltà nella
scuola tedesca continua ad essere quello di “concentrarsi sull’apprendimento
del tedesco e sospendere la frequenza ai corsi della lingua d’origine”.
Un consiglio tanto assurdo da apparire
incredibile: sarebbe come a dire che la lingua appresa dal bambino prima
dell’ingresso nella scuola diventi improvvisamente non solo priva di valore ma
addirittura dannosa per ogni successivo apprendimento, dunque un qualcosa da
estirpare come si fa con le erbacce per migliorare il raccolto.
Questi “consigli” insensati rasentano la
criminalità se si pensa ai danni affettivi e cognitivi che di conseguenza hanno
subito generazioni di bambini stranieri in Germania. Non ultimo i genitori che
hanno seguito questi consigli hanno poi finito per constatare che lungi da apportare miglioramenti per il
profitto nella scuola tedesca, l’abbandono della lingua d’ origine e l’uso coi
figli del tedesco appreso in ambiente
di lavoro (il cosiddetto: “Gastarbeiterdeutsch”) aveva effetti e risultati devastanti esattamente per
l’apprendimento del tedesco corretto !
Una linguista Finalandese (Skuttnabb-Kangas) aveva
giustamente introdotto il termine “linguicidio” per designare questa deleteria
e falsa concezione pedagogica
aggiungendo la velenosa ma giustificata e documentata considerazione che
ad es. nella seconda metà del secolo scorso,
per annientare la lingua curda degli immigrati turchi in Germania,
avevano avuto maggior successo i “consigli pedagogici” degli insegnanti
tedeschi che non le misure repressive (prigione) dei governi turchi in
patria.
Premessi gli effetti positivi, non si deve
dimenticare che nulla è regalato: il cammino dell’educazione bilingue non è
lineare e costituito da successi e progressi costanti ma un processo costituito
da fasi alterne, poiché crescendo i bambini si troveranno giocoforza in
situazioni conflittuali con una o a volte ambedue le lingue apprese.
I progressi difficilmente si possono mantenere
paralleli, l’esposizione alle due lingue per motivi concreti non potrà mai
essere identica: ci sarà sempre una lingua dominante (quella del Paese di
residenza in genere) ed un’altra (o altre) che resteranno sulle difensive,
laddove lo sforzo del (dei) genitori si concentrerà sul mantenimento della
lingue minacciate.
Occorre dunque tenere presente che all’inizio
della scolarità i genitori dei bambini bilingui potrebbero essere confrontati
con analoghe riserve da parte del personale scolastico. Il modo migliore per
liquidare gli eventuali consigli o esortazioni ad abbandonare nell’educazione dei figli altre lingue che non siano
quella scolastica (nel nostro caso il tedesco) è chiedere agli insegnanti sulla
base di quali ricerche o studi si basino le loro riserve: probabilmente non ci
hanno mai pensato, e qualora si prendano la briga ci compiere qualche ricerca
(come oggi è facilissimo grazie ad internet), vedranno che le uniche
pubblicazioni con cui si cercava di dimostrare che il bilinguismo era dannoso
risalgono al periodo infausto fra il 1930 ed il 1945, ed è facile capire sotto quali ideologia essi furono scritti.
Dunque premesso che il bilinguismo oltre che ad essere
la situazione di fatto di almeno la metà dell’ umanità è che gli effetti
positivi sono stati riaffermati da centinaia di ricerche empiriche, vediamo
quali sono le condizioni per realizzarlo nell’educazione dei figli.
Come in ogni cammino, decisivo è il primo passo:
l’educazione bilingue inizia al più
tardi …dalla nascita. Ciò significa che in particolare per genitori che non
parlano la medesima lingua è necessario decidere ed essere conseguenti fin dai
primi giorni di vita dei figli.
Se è vero che anche con un’esposizione ridotta
alla lingua tutti i bambini magari con ritardo imparano a parlare, tutti gli
studi empirici sulle modalità con cui i bambini imparano a parlare dimostrano
che vi sono differenze notevolissimo nei risultati a seconda che i genitori si
dedichino a sostenere questo apprendimento oppure lo lascino semplicemente al
caso.
In ciascuna famiglia le possibilità dei genitori
possono essere anche molto diverse a seconda degli impegni e del tempo a
disposizione per parlare coi figli, ma una costante va comunque sottolineata:
il tempo che ad esempio il genitore meno presente in casa dedica al figlio /ai
figli deve divenire una specie di
rituale, un’abitudine.
Leggere ai figli si dice, sarebbe tipicamente un’abitudine delle famiglie bene, dei
piccoli borghesi. Non concordo: ricordo che mio padre (operaio di fabbrica) lo faceva con me alla sera quando
non doveva fare il turno di notte. Leggeva in italiano, poiché non avevamo
libri scritti in occitano-piemontese, ma commentava le letture in questa
lingua. La regola “una lingua - una persona” non va intesa infatti in senso
assoluto. Anche mia moglie, che coi figli ha sempre parlato tedesco, ogni tanto
leggeva loro libri in italiano: commentando poi in tedesco. Mia nonna, che non aveva
nemmeno frequentato tutte le classi elementari, mi leggeva ogni tanto una
favola in italiano, anche lei probabilmente commentando poi nella lingua che
parlava con tutti, il piemontese. Mia madre preferiva raccontarmi qualcosa
della sua infanzia o di altri parenti o conoscenti, lo faceva spesso mentre
cuciva poiché era sarta e lavorava in casa. Lo faceva regolarmente, ed a
differenza di mio padre mi parlava in italiano. Per lei l’italiano era dunque
una lingua che aveva imparato a scuola e perfezionato in seguito (ho conservato
come un caro ricordo il suo vocabolario piemontese-italiano).
Se per me l’italiano è divenuto comunque una
lingua alla quale mi sento legato affettivamente è probabilmente dovuto al
fatto che mi è stata presentata sempre in unione o alternanza alla lingua
dell’ambiente famigliare ma mai in opposizione ad essa.
Soltanto a scuola, negli anni ’50 del secolo
scorso, sperimentai il divieto assoluto (con tanto di sanzioni) di parlare la
lingua appresa da mio padre: non credo che questo divieto sia servito a farmi
apprendere meglio l’italiano, ma sicuramente mi ha aiutato a valorizzare appunto questa lingua vietata (che cercavo
di parlare in ogni occasione coi compagni)
e a nutrire un sano scetticismo
nei confronti di ogni insegnamento scolastico che assurdamente impone divieti
linguistici.
Comprensibile benché non encomiabile
l’atteggiamento degli insegnanti dell’epoca, coi quali sarebbe ingiusto essere severi: era un
atteggiamento imposto dal fascismo, finito da pochi anni, che oltre a vietare
l’uso delle lingue diverse dall’italiano aveva imposto anche il cambio dei nomi
di molti comuni nella nostra regione, con esiti tanto ridicoli quanto severamente imposti.
Dunque leggere o raccontare ai bambini
è alla portata di tutti, non occorre né aver studiato né essere
benestanti. Certo è necessario un
impegno costante, resistendo alla tentazione di piazzare semplicemente i figli
dinanzi al televisore. Le trasmissioni radiofoniche o televisive in ambedue le
lingue sono certo un utile supporto nell’educazione (se si tratta di programmi
intelligenti) ma non sostituiscono in alcun modo la buona e decisiva abitudine
dei genitori di dedicare tempo a parlare – ciascuno la propria lingua – ai
figli.
I figli rispondono utilizzando parole o frasi
dell’altra lingua ? Nessun problema, se lo fanno è perché in quel momento
l’espressione che viene loro più facilmente in uso è quella. Non è la
“confusione” o l’ “interferenza” tanto temuta da certi insegnanti: è la
soluzione pratica di chi sta imparando le due (o più lingue) e che sa che il
genitore comunque lo comprende. Inutile e contro produttivo correggere o
insistere per l’uso esclusivo ad esempio dell’ italiano parlando coi figli: al
più si può ripetere in italiano la parola o la frase che il bambino ha espresso
in tedesco, chiedendo conferma se quello era quanto voleva dire.
L’apprendimento delle lingue è un procedimento complesso che
richiede tempo e l’ascolto ripetuto di parole e frasi in un contesto
significativo (che facilita la memorizzazione) fino a che intuitivamente, cioè
senza l’uso cosciente di una regola come si pretende facciano gli alunni a
scuola quando studiano le lingue straniere, prima o poi il bambino impara ad esprimersi correttamente.
Dove trovare però materiali di lettura o altro
(audiolibri, canzoni, ecc.) per accompagnare nelle varie età il bambino
nell’apprendimento delle lingue almeno fino all’ età scolastica ?
In una prossima puntata esempi di genitori che
hanno praticato con successo queste ed altre strategie nell’educazione bilingue dei figli.
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